Cosa fanno i romani benestanti quando in città pare di stare all’hammam?
Vanno a Ponza.
Ponza è la Camogli dei milanesi, una località che nella bella stagione si intappa di cittadini, si intappa la strada per raggiungere la località, si intappano i ristoranti, le pizzerie, gli alberghi, le spiagge e gli scogli.
Stare a Ponza (o a Camogli) è uno status symbol, e il non plus ultra è se a Ponza ci arrivi con la tua propria imbarcazione, e poi te la spadroneggi tra lì e Palmarola.
Io ci sono arrivata con un modesto aliscafo preso a Formia, che al momento mi sembra essere la cittadina abitata dai più gentili di Italia: sono tutti sorridenti, se chiedi come arrivare al porto, ti ci accompagnano, se al porto chiedi dov’è il tabaccaio, ti ci accompagnano, sono conviviali ma non invadenti, sono come dei romano-giapponesi.
Sbarcata accompagnata da tutti questi solleciti formiani, ho verificato che in effetti Ponza è un’isola davvero deliziosa: agglomerati di casette variopinte disseminate sull’isola, un porticciolo graziosissimo, un’acqua limpida e fredda e un boato di romani ben acchittati.
Al secondo giorno abbiamo avuto la fortuna di incontrare degli amici ormeggiati fuori dal porto in una barca a vela interamente in legno che ci hanno invitati a raggiungerli il giorno seguente. L’indomani ci siamo quindi presentati pieni di mozzarelle, vino e raccomandazioni di Matteo: non dire a nessuno che non sei mai stata in barca a vela.
È vero. Co’ tutto che (ho imparato che questa locuzione è il corrispettivo romano di “nonostante”) mio fratello è velista, skipper, regatista e designer di barche, mio zio pure e la mia adolescenza è stata circondata da amici che andavano a Caprera o dai Les Glenans, io ci avevo messo piede sopra solo una volta, il tempo di rompere la deriva di un catorcio con la vela e tornare a riva.
Da che sono salita sulla barca, ho fatto di tutto per sembrare un consunto lupo di mare, destreggiandomi a bordo con la stessa nonchalance di quando salgo sul soppalco per andare a dormire, ho usato quei soliti termini caratteristici di chi non sa distinguere la poppa dalla prua tipo “cazza la randa”, “sbobina tutto”, “volante”, e ho fatto finta di voler mettere le mozzarelle in frigo – 20 minuti per capire dove si ubicasse un frigo dentro a uno scafo – per un giro furtivo nelle cabine, in estasi.
Abbiamo (hanno) tirato su l’ancora e siamo salpati.
Siccome a bordo c’era un giapponese che ha cominciato ad assumere un colorito più giallo del normale alla prima onda, abbiamo (hanno) acceso i motori e ci siamo diretti verso Palmarola, un isolotto lì di fronte. Quando a metà strada abbiamo capito che per il giapponese non c’era più nulla da fare, abbiamo (hanno) spento i motori e tirato su le vele. A quel punto non sono più riuscita più a trattenere la parvenza di scafata della vela e sono andata in sollucchero. Cessato quel brusio del motore, mi sono trovata nel silenzio del mare, che credevo fosse un privilegio solo dei naufraghi solitari.
Il vento faceva il suo dovere, l’onda lunga ci spingeva cullandoci – o scagliandoci, secondo il punto di vista orientale – e io mi sono sentita come se stessi cavalcando una balena, dentro e sopra il mare, accompagnati da questo movimento che era come stare dentro la pancia della mamma mentre rotola giù da una collina.
Allora l’ho detto, che in verità era la mia prima volta, e ho cercato anche di assicurarmi un posto su quella stessa barca per tutto il mese di agosto: bello il mare, bello tutto, ma io non sarei più scesa.
Invece ho dovuto, ho ripreso un aliscafo e son tornata a Roma, una Roma madida di sudori, scevra di romani e colma di tedeschi, francesi, inglesi e giapponesi.

Cosa fanno questi turisti quando sono a Roma e pare di stare all’hammam?
Vanno in chiesa.
Siccome qualche giorno dopo sono arrivate mia mamma e mia sorella da Milano, mi hanno portata a fare le cose dei turisti, tipo andare al Colosseo di sabato mattina, alla Galleria Borghese di domenica pomeriggio che non si poteva entrare, alla GNAM ma la collezione permanente è in restauro, e poi a San Pietro di lunedì pomeriggio, un’altra esperienza mistica pari alla barca a vela.
L’accesso avviene tramite la Porta Santa, l’ingresso principale alla Basilica, che reca una scritta nella quale più o meno vieni avvisato che siccome ci stai passando sotto proprio nell’anno del Giubileo della Misericordia, sei in procinto di accogliere Gesù e la sua misericordia. Io non sono molto religiosa e nemmeno più molto praticante dal momento in cui ho ricevuto il sacramento della cresima a 11 anni. Fino a quel giorno andavo a messa ogni domenica e a ogni festa comandata, mi confessavo con costanza e pregavo mattina e sera, ma una volta diventata Soldato del Signore ho smesso di punto in bianco. Qualche avvisaglia c’era già stata durante il periodo del catechismo, quando la catechista aveva chiesto alla classe di scrivere su biglietti anonimi cosa fosse per noi la Chiesa. Raccolti tutti, aveva cominciato a leggere: “per me la chiesa è la casa del signore”; “la chiesa è la casa di Dio”; “la chiesa è un luogo di preghiera”; “la chiesa è un edificio di mattoni con dentro preti e suore”; “la ch… CHI HA SCRITTO QUELLO?”
Ho alzato timidamente la mano.
Piena del mio cinismo razionalista, varcando la soglia della Basilica Papale di San Pietro sono stata investita da un afflato religioso. L’energia dentro è densa, intensa e innegabile, c’è ed è tangibile. A me ha quietato, mi ha fatto sentire bene in mezzo al petto.
A onor del vero, c’è anche puzza di ascelle per via dei troppi turisti che cercano refrigerio tra le spesse mura.
Seguendo il flusso dei fedeli, sono stata portata di fronte alla Pietà Vaticana di Michelangelo. Avevo visto solo quella Rondanini, e forse per la location, forse perché mia mamma continuava a ripeterci di essersi commossa, anche io mi sono un po’ commossa, e non per la bellezza della statua, ma per una mamma che tiene tra le braccia suo figlio morto ammazzato. Un’immagine che a vederla così di frequente ci si fa quasi il callo, poi guardo una statua e mi vengono su tutte le lacrime.
Dopo il Momento Spiritualità, siamo salite al Cupolone. Si poteva scegliere o di salire a piedi per circa 500 scalini, o in ascensore e poi 300 scalini.
Abbiamo preso l’ascensore, siamo arrivate su, abbiamo fatto 20 gradini e siamo uscite in una terrazza che circonda il cupolone, bullandoci di ‘sti 300 gradini che forse al Vaticano usano un’altra numerazione, ah ah ah, se lo sapevamo andavamo a piedi, ah ah ah.

Belle tronfie, siamo entrate all’interno della cupola, nel punto in cui il soffitto diventa cupola, dove guardi sotto e vedi l’altare, guardi sopra e vedi la volta decorata, tutt’intorno mosaici bellissimi.

Ma non era questo che volevo segnalare, seppur meraviglioso. Perché una volta terminata la visita dell’interno della cupola, comincia una gradinata di scalini che si restringono più si sale mentre le pareti si inclinano sempre di più e tutto diventa più ripido, ho perso la cognizione e punti di riferimento vorticando in salita finché ho compreso di essere nel contro-soffitto del cupolone e sono sbucata in alto in alto, nella parte più stretta della circonferenza di San Pietro.
Da lassù si vede tutta Roma, a 360 gradi, tutti i colli, il Tevere, il Colosseo, lo Stadio Olimpico, casa mia, le Ville, l’Altare della Patria, si vede tutto tranne il Cupolone, che è un po’ un peccato…
Isolotto palmarola?Non hai capito cos’è per i romani! Il luogo dove stappare i meglio vini e affogarcisi dentro fra cofane e cofane di pasta, il tempio dell’estate di cui regolarmente ti diranno che è la più bella isola, secondo national geographic, del mondo
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