In 32 anni e mezzo ho sicuramente portato a casa più biciclette che fidanzati, ma la mia vita ciclistica e quella sentimentale sono cominciate di pari passo, a 4 anni.
Lui si chiamava Raphael, eravamo compagni nella classe blu, e lui era il più bello non solo della classe blu, ma dell’asilo intero.
Lei era rosa, con le rotelle, mi era stata regalata per il mio compleanno e ci passavo interi pomeriggi a fare avanti e indietro sul marciapiede di fronte a casa mia.
Un pomeriggio avevo chiesto a Raphael se voleva venire a casa mia a vedere la mia bici, lui ci era venuto e io mi ci ero fidanzata.
A 5 anni venne il momento di togliere le rotelle e imparare per davvero, al parco Solari di Milano, con mio papà che mi correva dietro tenendomi per il portapacchi finché a un certo punto stavo andando da sola, mi esaltavo e cadevo.
E venne anche il momento di andare in prima elementare, io finii in 1a E e lui in 1a C, lo vedevo solo a mensa e mi struggevo fortemente. Sentii male al cuore e formicolio allo stomaco per la prima volta nella vita.
Alla fine di quell’anno di strazio, in estate, la mia bici rosa venne con me in campagna, un paesino di 4 case sul cucuzzolo di una collina, con un’unica strada sterrata lievemente in pendenza che univa le case, e una strada scoscesa che portava giù dalla collina.
Io e la mia unica amica, una bambina con la pelle chiarissima che puzzava sapeva di una con la pelle chiarissima, non molto sveglia sebbene fosse più grande di me di un paio di anni, nonché unica bambina delle 4 case a parte me – e già mi era andata molto bene – trascorrevamo le lunghissime giornate di agosto a fare a turno con la mia bici su e giù per la lieve pendenza.
Ricordo, come se fosse ieri, lei sulla mia bici che pedala, io che la guardo affrontare la discesa ardita, io che vedo la ruota anteriore staccarsi dalla bici, io che strabuzzo gli occhi mentre lei vola per aria, io che penso cazzo che culo che ho avuto mentre lei rovina sul selciato graffiandosi tutto il graffiabile e spaccandosi un labbro, io che mi volto verso il cielo e ringrazio mentre il paese si affolla intorno ai relitti.
Archiviate l’amica e la bici in un sol colpo, ho dovuto attendere qualche anno per entrare in possesso di un’altra bici rosa che, per ogni evenienza, questa volta avevo preteso fosse una mountain bike; purtroppo la mia insistenza per averla era stata inversamente proporzionale alla quantità di volte utilizzata. Quindi, quando poi mi servii per davvero una bici per andare a scuola in prima media, mio padre me ne rifilò una scarcassona, rumorosissima e vecchissima. Nonostante fosse stata ridipinta con cura di rosso, quando arrivavo in prossimità della scuola, compagni che nemmeno conoscevo gridavano insulti in direzione della mia bici e del grado di povertà della mia famiglia. Siccome in quegli anni ero convinta di essere davvero una discendente della piccola fiammiferaia, risparmiai tutto quello che potei tra paghette e furti ai miei fratelli più piccoli per andare all’Upim di Corso Vercelli e comprarmi una bicicletta vera e nuova.
Il tempo è tiranno, e io nel frattempo ero passata dalla prima alla terza media, avevo scoperto i jeans a zampa di elefante, Simon & Garfunkel e le manifestazioni: la mia bicicletta nuova mi sembrava troppo nuova. Così avevo preso una bomboletta viola e una verde e l’avevo travestita da scarcassona. Con me, la mia migliore amica Ale aveva fatto lo stesso con la sua.
In quarta ginnasio io e Ale incontrammo la Manu e la Sciura, anche loro avevano avuto la nostra stessa idea (come metà del liceo, d’altronde), e giravamo dunque schierate in orizzontale con le nostre 4 biciclette dipinte come da un cieco ad occhi chiusi.
A quei tempi andavo ovunque in bici, anche dal panettiere sotto casa, e quando mi si bucava una gomma passavo le notti inventandomi dei sistemi di ruote piene ma leggere a prova di vetri. Quando pioveva non andavo a scuola, quando ero costretta a camminare dovevo ricordarmi di mettere un piede davanti all’altro, a quei tempi sapevo solo pedalare.
E poi successe che il karma si manifestò.
Una mattina stavo pedalando velocissima sul pavé davanti al Parco Sempione, avevo la versione di greco alla prima ora ed ero in ritardo.
Vidi la mia ruota davanti separarsi dalla mia bici, vidi me stessa da fuori volare, pensai cazzo, è toccato a me, cazzo ci sono le rotaie se sta passando il tram sono morta, cazzo che culo sono caduta di schiena e il vocabolario di greco mi ha salvata da sbattere la testa e morire, se rimarrò in vita dirò meno parolacce. Pensai alla bambina della campagna e convenni che fosse giusto così, e che il greco mi aveva salvato la vita.
Comunque, legai la bici lì a un palo, corsi a scuola, e dopo una settimana che non ero andata a recuperarla, scomparve. Pensai che dopotutto mi avevano fatto un favore. Da quel giorno controllo la forcella due volte al dì.
La bici successiva non ricordo assolutamente come me la procurai, era una bellissima bici da uomo che però dipinsi di arancione e viola, e la sua particolarità fu che me la rubarono tre volte, e due volte la ritrovai.
La prima, al Parco Sempione un sabato pomeriggio: ero seduta sul prato con amici, la bici dietro di me, poi mi giro e non c’è più. Il giorno dopo il mio fidanzato di quei tempi, Cosimo, me la riportò a casa. Aveva visto un tipo pedalarci sopra, l’aveva sbattuto giù e se l’era ripresa.
La seconda volta ero arrivata tardi a scuola, non avevo la catena, avevo incontrato il mio compagno di classe Gigi, anche lui in ritardo, e lo avevo convinto a legare le nostre due bici insieme con il suo bloster. Quando siamo usciti, le avevano rubate entrambe. Il giorno successivo ritrovo la mia buttata dietro a un muretto poco distante dal mio liceo. Quella di Gigi, mai più vista.
La terza volta me l’hanno rubata mentre ero agli scout, dentro la parrocchia della chiesa. Ehm…
Mancherebbe ancora metà vita e altrettante bici, ma vorrei anche arrivare al punto di questo post: a Roma, la bici mi è mancata tantissimo, tantissimo.
A parte che camminare mi costa fatica, che mi fa male un ginocchio e che alcuni tragitti sono noiosi e brutti specialmente se ti trovi a vivere dietro la stazione Termini,
andare in bicicletta, schivare la auto, fare le pieghe come se fossi Valentino Rossi, pedalare velocissima, sentire il vento (lo smog) nei capelli, fare i garini con gli altri ciclisti, partire per prima ai semafori, fare il gioco di arrivare a casa senza aver mai messo i piedi per terra, maledire tutti quegli automobilisti incapaci e immobili nel traffico mentre io li supero mostrando le cosce seminude, è una di quelle cose che mi fa sentire felice di vivere e che mi leva le tristezze e le preoccupazioni.


Così finalmente sono andata a procurarmi una bici usata a Porta Portese, non al mercato ma a Via Portuense, in un vicolo dove regnano i biciclettai, un paradiso di facce losche e bici rubate: è una stradina sulla quale si affacciano decine e decine di ciclisti, ruote e telai ovunque, bici da corsa, bici da uomo in miniatura per bambini, bici che sembrano Harley, bici normali, bici vintage, bici nuove ma vintage; è stato come quando Harry Potter arriva a Diagon Alley, io son rimasta lì sbigottita e felice, con le farfalle nello stomaco, come quando vedevo Raphael nei corridioi della scuola elementare.
Siccome sono fermamente contro l’acquisto di refurtiva, ho vagato per un’ora – se la bici è ridipinta, è rubata; se no, c’è qualche chance che sia del mercato bianco – finché non ho trovato una bottega di una signora che, con sua figlia e due baldi giovani, compra bici in pessimo stato e le rimette a nuovo. Siccome il mio budget era di cinquanta euro e siccome fermamente, dopo l’esperienza degli otto anni, non volevo una mountain bike, tutto quello che sono riuscita a portarmi a casa è una bici Maino degli anni ’70, arrugginita, che la signora teneva tra quelle sulle quali doveva ancora intervenire: le mancava la sella ma freni, ruote e ingranaggi erano perfetti. Ho sentito quella scossa che senti quando è quella giusta. Mi ha messo il sellino e mi ha raccomandato di non dipingerla per non farla diventare bella.
Ovviamente la signora non sa che i miei apporti artistici solitamente sono controproducenti e sgraziati.
Inoltre la signora Luisa mi ha anche detto che se si rompe o se si buca, gliela riporto che la riparazione è compresa. La amo.

Mi sta benissimo, e anche se Matteo dice che per trenta euro me ne trovava una migliore, sono felicissima e innamorata.
Non mi importa che qui ci sono sette colli, le buche che sembrano crateri, i sampietrini e le bestemmie romane, ora ho Roma in pugno.
La signora Luisa si trova al Box 65/67, il box di Alfredo Chilelli, tel 348 755 79 30.
Sono felice e lusingata ….grazie veramente…di cuore …ciao…. luisa
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Prego Luisa! Un ottimo acquisto! Ma come mi hai trovata?
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