A dieci anni, dopo aver imparato ad accendere il gas dei fornelli e quindi a cucinarmi la pasta in bianco e l’uovo sodo (che per due volte ho dimenticato sul fuoco riuscendo nella rara impresa di far bruciare un uovo sodo) mia mamma mi disse: «Dopo che una mamma animale ha svezzato il suo cucciolo, ognuno per la sua strada. Adesso che sai farti da mangiare da sola, possiamo fare come gli animali anche noi. Basta che sappiamo che ci siamo nel bisogno e che ci vogliamo bene».
Non è che mi ha detto questa frase con la valigia in una mano e un biglietto per l’Australia solo andata nell’altra, ma un po’ questa cosa mi è rimasta.
Pur vivendo nella stessa città, Milano, a un chilometro di distanza, non sono stati rari periodi di sei mesi nei quali non vedevo né mia mamma né mio papà. Figurarsi i miei sei fratelli e sorelle. Ci si sentiva spesso, e se non ci sentiva voleva dire che andava tutto bene, almeno la salute.
Quando ho deciso di trasferirmi a Roma – è passato un anno – quindi, mi dicevo che tanto Roma/Milano sono tre ore di treno, e che la famiglia non mi sarebbe mancata più di troppo, date le premesse materne.
Sono una di quelle che pensava che la famiglia fosse una disgrazia nella quale siamo piovuti dal cielo, dalla quale non solo si eredita un naso troppo importante o piedi piatti (non noi, eh), ma anche insicurezze nevrosi e magagne.
La famiglia intesa come gruppo giuridico, non nei singoli componenti. La malinconia dei singoli, anche tutti ma singoli, sapevo che l’avrei avuta, ma dire “mi manca la mia famiglia” pensavo fosse impossibile.
E mi sbagliavo.
Ogni volta che sono a Milano, e giunge il momento di tornare a Roma, mi aggrappo alle tende di casa, paterna o materna (la mia è una famiglia allargata), e piango e mi dispero come Eleonora Duse.
Come quando ti dicono che non ti accorgi del valore di una cosa finché non ce l’hai più, ecco, io a trentatre anni mi accorgo di quanto la mia famiglia sia importante per me, ma soprattutto di quanto la mia famiglia continui a crescere e ad evolvere nonostante io non ci sia, che per me è inconcepibile.
Non solo i membri crescono e invecchiano anagraficamente, ma la struttura stessa è mutevole e liquida.
Questa ultima volta sono stata soprattutto con i miei fratelli, della quale io sono la maggiore e anche la più bassa di tutti ormai. I miei fratelli e sorelle si chiamano, in ordine di nascita: Marie, Sebastiano, Iannis, Milo, Lapo e Anita.
Non avrei smesso mai di ascoltarli e guardarli.
A parte Iannis che era nelle Filippine.
Questi miei fratelli, tutti, sono onde del mare, di quello strano concetto fisico del moto ondoso per il quale l’acqua rimane ferma ed è l’energia che si sposta. Anche loro sono così, sono onde di energia, che a volte ti accarezzano, a volte sono poderose e in grado di spostarti ma in cui comunque ci galleggi dentro.
E mi manca tantissimo non galleggiarci dentro tutti i giorni, vedere come mutano dal mattino alla sera, come crescono e quanto.
Ed è grazie a loro, noi, che la famiglia assume forme sempre nuove, che magari è una forma che non piace a tutti, ma è innegabile che fa di noi un gruppo di esseri umani legati e coinvolti, non solo dal cognome e dalla struttura capitalistica.
Che poi siamo fratelli ma disponiamo di tre cognomi differenti e il nostro citofono sembra quello di una comune.
I miei fratelli spingono e io, tornata a Roma, guardavo la serie Netflix The Crown dove c’è la storia della Regina Elisabetta II d’Inghilterra e la invidiavo solo perché lei ha una casa così grossa che tutti i principini, principesse e regine madri e padri, possono vivere tutti assieme, e anche non vedersi mai che Buckingham Palace è grossa per davvero.
So anche che per la maggior parte della mia famiglia questo invece sarebbe un incubo, ma tiè, il blog è mio e decido io.



Senza radici si prenderebbe il volo al primo sbuffo d’aria.
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cara Tieta……
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